Nella seconda metà degli anni ’90, periodo in cui i progetti di chiese privilegiano il carattere assembleare con le sedute dei fedeli disposte intorno all’altare (vedi progetto Stefano Cordeschi per il concorso “50 Chiese per il 2000” indetto dalla Curia Arcivescovile di Roma) e con il conseguente rischio di un “effetto auditorium”, Giangiacomo D’Ardia riconosce ancora la necessità dell’impianto basilicale e su questo tipo, così riconosciuto e consolidato nella storia dell’architettura, progetta e realizza la chiesa per il Gallaratese.
Si potrebbe rammemorare la sottolineatura fatta da Adolf Loos a proposito della imprescindibilità della colonna anche nell’architettura moderna.
Il quartiere è già salito alle cronache delle riviste di architettura grazie al significativo progetto di Carlo Aymonino per il Complesso residenziale Monte Amiata (1974) che incorpora una delle prime realizzazioni di Aldo Rossi, un contrappunto laconico alla forte espressività del progettista romano.
Circa 20 anni dopo D’Ardia vince il concorso “Tre chiese per il 2000” indetto dalla Diocesi di Milano nel 1989 e inserito nel cosiddetto “Piano Montini” per venticinque chiese da costruirsi nelle periferie meneghine.
La chiesa, realizzata nel 1997, recepisce dalla storia non solo l’impianto tipologico ma anche un carattere di austerità per il tramite dell’uso di un solo materiale prevalente, la pietra che, con le sue lastre a ricorsi orizzontali di differenti misure, riveste esterno e interno della fabbrica strutturata in cemento armato e caratterizzata dai quattro bastioni angolari.
Due sono gli elementi di eccezione: il portale di ingresso in cemento armato a vista e la copertura, una sorta di carena ribassata rovesciata poggiata sulle strutture perimetrali con distacco e leggerezza, attraverso un mikado di profilati tubolari in acciaio. Questa sospensione aerea genera uno spazio libero tra volta e muri (accentuato sul prospetto dell’ingresso) da cui si infila la luce a rischiarare con parsimonia l’aula sacra. L’illuminazione artificiale è affidata in prevalenza alla sequenza delle eleganti lampade a sospensione, con calotta metallica semisferica.
Lo spazio interno viene disegnato in basso dalla sequenza delle cappelle coperte a volta (forse memoria dell’assenza delle navate), alcune delle quali ospitano i confessionali; in alto un matroneo alterna ringhiere a corpi finestrati, in un ritmo di pieni e vuoti invertito dal basso verso l’alto e viceversa.
La sguardo rivolto sull’altare in cemento armato, come l’ambone, viene catturato dal crocifisso in bronzo smaltato – realizzato da Ettore De Vecchi – e dal mosaico con tessere dorate che disegna una croce allungata sulla sottostante mensa eucaristica.
Vicino all’ingresso sulla parete di sinistra si accede alla cappella feriale e al battistero: quest’ultimo si presenta come volume a base ottagonale, staccato dal corpo di fabbrica principale e con copertura autonoma, con un possibile riferimento ai quattro “oggetti” accostati alla Cappella di Santa Maria Annunciata che Gio Ponti ha realizzato nell’ambito dell’ospedale milanese San Carlo. Cappella con annessi volumi minori a cui il riferimento si fa più deciso nel progetto di D’Ardia nel concorso per la chiesa di Acilia a Roma (1994).
Il rapporto con il quartiere è mediato dal sagrato che viene definito sui lati dall’estensione esterna del sistema interno della murazione cappelle-matroneo. Il corpo di fabbrica che affaccia su via Falck, che non ha più il carattere significativo del lungo muro longitudinale dei primi disegni, alloggia i servizi parrocchiali, la casa del sacerdote e la sagrestia.
La realizzazione ha perso anche il ruolo di triangolazione urbana del campanile – non realizzato per carenza di fondi – progettato come una torre medievale in parte aperta sulla scala e sormontata da un reticolo metallico che avrebbe alloggiato le campane.
Dopo la sua più importante realizzazione architettonica, la ricerca di Giangi D’Ardia si indirizza verso un approccio più artistico e informale, che culmina con il monumento ai Caduti di Nassirya, collocato di fronte al Nuovo Tribunale di Pescara.
Carlo Pozzi