Cosa altro dire dell’artista che con pochi essenziali gesti – quali sono quelli del bucare e del tagliare la tela – ha rivoluzionato la storia dell’arte?
Per questo motivo, mi limiterò a fissare alcuni pensieri e osservazioni circa i Crocifissi e le Crocifissioni che ho avuto modo di incontrare a Roma, all’interno della cornice della mostra Lucio Fontana. Terra e oro (a cura di Anna Coliva) alla Galleria Borghese; una mostra che, sulla scia della precedente esposizione di opere di Pablo Picasso, tenta di istituire un cortocircuito visivo tra antico e contemporaneo – anche se l’arte intera, in fondo, è tutta contemporanea…
Questi lavori di Fontana, realizzati in ceramica o in terracotta smaltata policrome in un arco cronologico compreso tra il 1948 e il 1961, sono stati collocati nel salone d’ingresso della Villa, dominato, sulla volta, dal grande affresco con l’Apoteosi di Romolo di Mariano Rossi (1776-1779): un gran teatro mitologico, dove marmi, pitture, stucchi, busti antichi e altro genere di sculture si fondono in una fitta e composita trama d’immagini.
I Crocifissi e le Crocifissioni – una ventina circa in tutto – collocati su delle macchine allestitive dal tono minimale, sono al cospetto di cotanto fervore imaginifico come piccole, ma vivissime, fiammelle di materia. Le loro dimensioni, infatti, sono sempre contenute, espressioni di una straordinaria raffinatezza dell’afflato poetico e di una dimensione spirituale che non necessita affatto di costruzioni articolate e retoricamente sovrabbondanti per manifestarsi.
In più momenti la tematica sacra è entrata nel lavoro di Fontana scultore; si pensi, per fare degli esempi, ai bozzetti in gesso per il concorso per la quinta porta del Duomo di Milano (1950), a quello per la Pala dell’Assunta (1955) sempre per la cattedrale ambrosiana, alla pala con l’Apparizione del Sacro Cuore a Santa Margherita Alacoque (1956) a San Fedele, o alla meravigliosa Via Crucis in terracotta (1957), custodita ora nella cripta della stessa chiesa gesuitica. Le ceramiche esposte a Roma, dunque, fanno parte di una ricerca d’immagine che, pur sviluppandosi contemporaneamente a quella dei Concetti spaziali – le prime tele bucate risalgono al 1948; nel percorso della mostra sono presenti diversi Concetti, insieme ad alcune Attese – mantiene nella figura il suo riferimento. Una posizione, questa, dettata non solo da scelte linguistiche, ma naturalmente anche da ragioni di natura iconografica.
C’è qualcosa però di meravigliosamente nuovo nelle figure che lo scultore crea, e, in particolar modo, in questi Cristi che, aerei, si distaccano dal legno della croce a cui la tradizione figurativa li aveva sempre inchiodati. Liberati da ogni tratto descrittivo, i corpi sono volumi fisionomicamente riconoscibili – la struttura anatomica è mantenuta – animati da una vibrazione interiore che li rende vivissimi. La materia è sfaldata, e si trasforma in un merletto di luci e di ombre. È come se le infinite sfaccettature di cui è costituita la superficie auscultassero l’intimo respiro dello spazio.
Proprio in rapporto a quest’ultima questione, i Crocifissi realizzano un ulteriore miracolo della forma. Quando non diviene tutt’uno con il legno (Crocifisso, 1955-57, 33,5x18x9,5 cm, ceramica smaltata policroma, Karsten Greve, Sankt Moritz), il corpo del Cristo si libra leggerissimo, abitando lo spazio che esso stesso crea. Alle sue spalle, inframezzato da un sottilissimo interstizio spaziale, il simbolo del sacrificio ultimo, il luogo della piena umanità del logos fattosi carne, si apre come una farfalla screziata distende le sue ali (Crocifisso, 1950-55, 50x35x18 cm, Karsten Greve, Sankt Moritz).
Le pieghe barocche che costellano e che orlano queste ceramiche non tendono mai a ripetersi o insistere sull’identico; al contrario, governate da una sapiente mano creatrice, sono prova di elegante raffinatezza. Il virtuosismo non cede mai all’autocompiacimento, ma arricchisce la modellazione della materia.
C’è un aspetto che mi affascina molto. Queste opere sono nate dall’argilla: un materiale povero, anche se dotato di qualità intrinseche favorevolissime alla plastica. Ecco, questo materiale è stato come trasfigurato da Fontana: pur mantenendo la sua concretezza – la resa del volume ne è la più chiara espressione – esso diviene sostanza luminosa, con le sue sfumature cromatiche sul violetto, sul blu, sul verde intenso, sull’oro ottenute con smalti e coll’impiego di ossidi metallici nella fase di cottura. La sofferenza del Cristo acquisisce allora un’altissima bellezza: è, forse, la dolcezza di uno scultore che, modellando con le sue dita l’immagine del Dio fattosi uomo, sente profondamente l’amore per la vita.
Il serpentinato disegnato dal corpo, l’angolatura dei ginocchi, pur portatori intrinseci di una memoria storico-artistica – penso soprattutto alla tipologia del Christus Patiens duecentesco, e, ancora di più, a certi esiti secenteschi, sia pittorici che scultorei – divengono qualcosa d’altro rispetto alla loro natura di segni di pathos.
Un qualcosa di simile lo si può riscontrare anche nelle Crocifissioni, contraddistinte un tono patente più spiccato. In una, per esempio (Crocifissione, 1957, 42,5x36x10 cm, ceramica smaltata policroma, Karsten Greve, Sankt Moritz), le note di colore rosso e un’accentuazione del disfacimento delle membra evocano una più marcata dimensione di sofferenza. Vi fanno però da contrappunto visivo il perizoma bianco del Cristo, che orizzontalmente si distende bellissimo sotto forma di panneggio, e un braccio che, distaccandosi dal fondo con uno sforzo estremo, è affermazione di vitalità: un preannuncio della Resurrezione?
Stefano Agresti
Per la documentazione fotografica ringraziamo l’ Ufficio Comunicazione e Promozione della Galleria Borghese e l’ufficio stampa – Alessandra Santerini
info
Lucio Fontana. Terra e Oro
Galleria Borghese, Roma
Prorogata fino al 25 agosto 2019