“Itinerari dello sguardo in architettura” intervista a Roberto Secchi

Roberto Secchi * racconta nel suo libro, attraverso viaggi e memorie, architetture contemporanee.

Roma 14 Aprile 2025. Incontriamo Roberto Secchi alla Casa dell’Architettura, subito dopo la presentazione del suo libro “Itinerari dello sguardo in architettura”, uscito a dicembre del 2024 per la casa editrice “Tab edizioni” nella collana “Saggi”. È una raccolta di ricordi, esperienze, sguardi appunto. Non so se è più un libro di architettura o di viaggio, ma propendo per il secondo e mi fa pensare alle Città Invisibili per lo stupore con cui l’autore descrive le architetture quasi esistessero in un’altra realtà. In ogni modo è veramente un bel libro, piacevole da leggere anche per i non architetti e ringraziamo infinitamente Roberto Secchi per il bel regalo che ci fa con questa sua intervista.

Nel “gran tour” per l’Europa raccontato nel suo libro sono presenti alcune chiese; cosa, dell’architettura “religiosa”, l’ha colpita particolarmente anche rispetto all’architettura che potremmo definire “civile”?

Desidero premettere che la scelta delle opere raccolte nell’antologia è seguita alla convinzione che fossero molto interessanti ma anche alla necessità di avvalersi di fotografie fatte da me che giustificassero anche il titolo del libro. Esso mira a far rivivere l’esperienza dell’architettura nell’itinerario dello sguardo. Nessuna intenzione di documentare l’architettura religiosa in Europa, né ricercare modelli per la progettazione. (altrimenti non avrei potuto ignorare le chiese di Dominikus Böhm, di Rudolf Schwarz, di Le Corbusier, di Figini e Pollini…). E non c’è nemmeno alcuna intenzione di confrontare architettura civile e architettura religiosa. Poiché credo che centrale nel progetto sia il tema inteso come qualcosa che partendo dal programma lo trascende e guida il progettista nel suo cammino di ritorno alle cose, nel suo cammino alla ricerca del senso, le due categorie non mi sembrano discriminanti. In ambedue i casi il cammino da percorrere da parte del progettista è verso il significato più profondo dello scopo cui la costruzione è destinata. Un’architettura rivolta al bene comune porta con sé qualcosa di religioso, oltrepassa il puro soddisfacimento dei bisogni materiali.

C’è tra queste chiese una che l’ha affascinata di più e, nel caso, perché?

Riassumendo: nel volume sono illustrate Notre Dame du Raincy di August Perret, la Chiesa di Seinajoki di Alvar Aalto, La Kalevan Kirko Di Reima Pietilä e Raili Pietilä, La St.Norbert Kirch di Fehling e Gögel, e le recenti parrocchie romane San Pio da Petralcina di Sandro Anselmi, San Carlo Borromeo di Antonio Monestiroli, San Combiniano di Umberto Riva e San Tommaso Apostolo di Marco Petreschi.
Tra queste la prima mi ha emozionato di più delle altre per essere nella scia delle grandi cattedrali europee gotiche dove si manifestano insieme con la fede, l’amore e la devozione lo spirito della comunità che l’ha voluta e costruita. Ma anche per come si presenta nell’esaltazione di un’unica materia, il calcestruzzo armato impiegato sapientemente dalla mano esperta ed economa dell’impresario di costruzioni. Cosa che conferma il convincimento appena espresso nel rispondere alla prima domanda. La materia modellata accoglie e svanisce nella luminescenza straordinaria offerta dai vetri smaltati con le elementari figure geometriche simboliche trasferendo i fedeli nella sfera dello spirito.

Se dovesse scegliere tra l’aspetto emozionale, quello simbolico/allegorico o quello tipologico, quale, secondo lei, è il più specifico dell’architettura religiosa e perché?

Sceglierei l’aspetto emozionale senza però sottovalutare la rispondenza dell’impianto tipologico alle ingiunzioni della liturgia. C’è da osservare, infatti, che molte chiese contemporanee le soffrano come una limitazione alla creatività dell’artista senza comprenderne le ragioni profonde e le valenze simboliche. A questo proposito considero impropri, anche perché dovuti a difficili acrobazie nella disposizione degli spazi, i rimaneggiamenti derivanti dalla necessità di obbedire all’indicazione del Concilio circa la posizione dell’altare del celebrante nei confronti dell’assemblea dei fedeli. Infine vorrei osservare che in molte chiese moderne e contemporanee cattoliche c’è troppa luce diretta e poco schermata e sussistono in genere pochi contrasti luminosi: la drammaticità della celebrazione del Sacrificio merita nella tradizione cattolica un’attenzione più fine, come ci insegnano l’architettura romanica, gotica e barocca particolarmente ispirate dalla e alla fede.

Della sua città, Roma, lei presenta tre chiese, fra quelle realizzate per il Giubileo del 2000, ubicate nella periferia più recente, tra case e palazzi “male assemblati”. La Conferenza Episcopale Italiana, nella nota pastorale del 1993, afferma che “il rapporto tra chiesa e quartiere ha valore qualificante rispetto ad un ambiente urbano non di rado anonimo, che acquista fisionomia (e spesso anche denominazione) tramite questa presenza […]”. Secondo lei queste chiese più recenti riescono a “parlare” con la città e della città che sta loro intorno?

Una lunga, secolare tradizione di fondazione delle città vede il luogo di culto costituire l’elemento primario e insostituibile. Gli scavi archeologici di siti e civiltà anche remote ci hanno testimoniato questa centralità. Essa è perdurata per secoli finché le città sono state contenute in dimensioni misurate, entro una cinta muraria, disegnate da una rete di strade e di tessuti più o meno omogenei e si sono accresciute per addizioni di parti ben definite. I riti di fondazione sono stati legati ai culti religiosi. Il sacro è stato ritenuto necessario. Nella città contemporanea un residuo di questa tradizione resta nella normativa urbanistica. Gli interventi di insediamento di nuovi quartieri di abitazione, ma anche di altre attività riservano una superficie destinata agli edifici di culto. Spesso tuttavia essa rimane inedificata e consegnata al degrado. Nelle periferie urbane delle grandi città e delle metropoli questo rapporto di sussistenza dell’edilizia ordinaria con la chiesa è diventato di più difficile attuazione. Il concorso per le parrocchie di Roma conclusosi solo qualche anno fa ha cercato di rimediare a tale deficienza. La parrocchia è già di per sé un organismo ibrido: insieme con la chiesa e la canonica ci sono i servizi rivolti ai fedeli e alle comunità dei luoghi di insediamento. Ancora una volta, per così dire edilizia civile e religiosa diventano una cosa sola secondo la meravigliosa tradizione dei monasteri. Anche per le parrocchie valgono i principi che si usano per adeguare il progetto ai contesti di appartenenza di qualsiasi progetto architettonico: contesti geografici, storici, culturali e sociali. Le relazioni architettoniche tra le chiese illustrate e i rispettivi quartieri sono qualificanti nel senso che costituiscono comunque un elemento di riferimento anche visivo e simbolico di identificazione della comunità (quando c’è anche dal punto di vista sociale), ma sono difficili in un paesaggio spesso anonimo se non degradato, o peggio infestato da pessimi esempi di edilizia speculativa.

Una mia curiosità personale, tra le tante architetture realizzate recentemente a Roma, lei, per raccontare nel suo libro la contemporaneità, ha scelto tre chiese. C’è un motivo particolare per questa scelta?

La città contemporanea ha rigettato l’ordine. A tutti appare come un arcipelago in un mare di costruzioni difficilmente attraversabile per raggiungere tutte le sue isole, diverse per ricchezza e qualità. Le parrocchie possono essere pensate come un tentativo di creare dei facili approdi per naviganti smarriti.

Infine, a conclusione della presentazione del suo libro, lei ha accennato ad un percorso di studio da poco intrapreso, parlando di architettura “povera”. Nel Sermone della Montagna, Gesù dice beati i poveri di spirito (Μακάριοι οἱ πτωχοὶ τῷ πνεύματι); il termine “poveri” traduce l’ebraico “‘anawîm”, che alla lettera indica “coloro che si curvano”, per chiedere aiuto o per rispetto oppure semplicemente per ascoltare. Potrebbe essere questa la “povertà” che immagina come possibile via per l’architettura contemporanea? Un mettersi in ascolto, quando la povertà di oggi rivela, forse, più di ogni altra cosa, un bisogno di senso?

Da tempo penso con insistenza a un’architettura che vorrei “povera”. Non ho le parole per darne una definizione. Forse non ci può essere alcuna espressione che si avvicini a quanto cerco. Forse perché non si tratta di una qualità dell’opera di architettura ma dell’attitudine con cui ci si mette al lavoro per pensarla e realizzarla. Tutti i termini che mi sono stati suggeriti e che mi sono venuti in mente mi sono sempre apparsi difettosi. Mi viene voglia di pensare che ci si possa avvicinare di più per via negativa: non è questo, no, non è quest’altro, è di più e riferendosi all’attitudine altrettanto, con tanti senza: senza arroganza, senza superbia, senza intellettualismi e senza narcisismi. Privi dell’esasperata volontà di affermazione del proprio io, consapevoli dei propri limiti.

Claudio De Meo 

 

 

foto © per gentile concessione di Roberto Secchi 

 

* Roberto Secchi già professore ordinario di progettazione architettonica e urbana, continua la sua attività all’interno del Comitato dei membri esperti nell’ambito del dottorato in architettura, teorie e progetto della Sapienza di Roma. Ha diretto la collana «Tracce» per i tipi di Officina Edizioni.

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