La Via Crucis di Marcello Mondazzi

di Andrea Dall’Asta S.I.

La Via Crucis: un’opera liturgica

Le stazioni della Via Crucis[1] dell’artista abruzzese Marcello Mondazzi, commissionata per la chiesa di San Giuseppe Lavoratore di Ponte Taro nei pressi di Parma dalla famiglia Paladini, si inserisce in modo originale nel panorama dell’arte liturgica italiana, non solo per l’attenzione alla riflessione biblico-teologica, ma per le modalità con le quali la ricerca estetica è stata condotta in relazione al simbolismo di ogni immagine.

Grande attenzione è data all’uso dei materiali. Le potenzialità espressive che emergono dalla trasformazione della materia grazie all’impiego di oli, petroli e fuoco diventano, infatti, già Via Crucis, metafora di un universo che compie un cammino, una conversione, un passaggio. I materiali si compongono e si dissolvono allo stesso tempo, creando un gioco di ombre sottili che suggerisce leggerezza, levitazione. In una continua dialettica tra scultura e pittura, le immagini sembrano sovrapposizioni di inafferrabili trasparenze, di visioni impercettibili. L’intera sequenza delle stazioni appare immersa in un’atmosfera di sospensione temporale.

La ricerca dell’autore si concentra nello “strappare” armonie dissonanti attraverso l’uso di colori fluidi e nebulosi, giocati sulla scala degli ocra e sul contrasto tra i toni chiari e quelli scuri. Là dove il nero si attenua, infatti, il bianco sembra assumere cromatismi più intensi, che sfumano in tinte verdastre e acquee che producono suggestivi effetti luministici. E, al contrario, l’intensificazione del colore d’improvviso si spegne in velate ombreggiature. Tutto si presenta in una gradazione di toni e in una ricerca d’essenzialità che nasce dal continuo togliere materia, colore, movimento. I materiali plastici, nobilitati paradossalmente dal deterioramento provocato dalla combustione e dalla corrosione del fuoco, non sono splendenti ma opachi, sensibili alle variazioni luminose, come se partecipassero a una passione, al dolore del mondo. Le opere sembrano scritte con la luce, che cerca di fuoriuscire da un magma informe, cupo. Attraverso l’oscuro, la luce si rende visibile. Al cuore delle tenebre risplende la luminosità di una sorgente. Attraversando la corrosione della materia, la luce trasforma le superfici opache in luoghi di silenzi, in forme che chiedono riscatto e liberazione.

Complessa è l’analisi delle diverse opere, da interpretarsi come appunti, lacerti di quel viaggio che Cristo compì alle porte di Gerusalemme, fuori dalle mura della città, su di una collina chiamata Golgota. In questo senso, le singole stazioni non hanno un intento semplicemente didascalico o prevalentemente illustrativo, come accade per lo più per le immagini liturgiche o per i film che narrano la vita di Cristo realizzati in questi ultimi decenni. Immagini troppo spesso vuote e artificiali. Nelle “stazioni” di Mondazzi non vediamo mai scene complete, ma frammenti di corpi come mani, piedi… come se le narrazioni dovessero essere ricostruite di volta in volta dallo spettatore. Meglio, dal fedele, in quanto si tratta di immagini esplicitamente realizzate per uno spazio liturgico. In ogni caso, non vediamo mai il corpo di Cristo o di altri personaggi biblici nella loro interezza, come se l’identità della persona raffigurata attraverso quei frammenti andasse di volta in volta riconosciuta. Tutto è mostrato con profonda discrezione, come se il dolore di Cristo fosse presentato attraverso la pietas di coloro che lo hanno amato, come Maria o Giovanni evangelista. Raramente compaiono volti e, quando accade, quei volti sono quelli di Cristo, di Pietro o del Sommo Sacerdote. Se li osserviamo attentamente, intuiamo che si tratta di autoritratti dell’artista: immedesimandosi e identificandosi nei diversi personaggi, l’autore sembra così farsi lui stesso protagonista di una Via Crucis intima, personale, da rivivere sulla propria pelle.

Nelle diverse tavole, Cristo, seppur raffigurato attraverso dettagli, appare rappresentato nella sua bellezza e nella sua dolcezza anche nei momenti di maggior sofferenza, negli istanti più atroci. In questo senso, più che un Christus patiens, egli si rivela un Christus gloriosus, ben diverso da alcune grottesche rappresentazioni contemporanee, come quelle che aveva per esempio mostrato Mel Gibson nel suo film The Passion. Mondazzi s’ispira, in questo senso, alla tradizione italiana che raffigurava il Cristo della Passione nella sua sovrumana bellezza, non sfigurato né deformato dal dolore né dalle ferite, ispirandosi ai modelli della statuaria greco-romana. Nel Cristo della Passione riconosciamo già il Cristo della Gloria.

Ogni immagine si presenta come uno spunto di meditazione, come una preghiera che si snoda secondo tempi e spazi che chiedono di essere vissuti nell’interiorità della propria coscienza, per interpellarci, interrogarci, perché sappiamo compiere scelte fondamentali di vita e riconoscere, in quell’uomo morto per noi sulla croce, il Dio della vita.

 

Le stazioni della Via Crucis

Prima stazione: Gesù è condannato a morte. Complesse sono le suggestioni sprigionate dall’immagine che si presenta con due punti di vista diversi. Nella parte alta una mano compie un gesto di benedizione. È vista dal basso, come se fosse rivolta allo spettatore. Nella parte inferiore, invece, vediamo due piedi, questa volta ripresi dall’alto. Sembrano i nostri che prendono il posto di quelli di Cristo. Un’identificazione tra noi e Cristo è così suggerita, evocata, attraverso il medesimo punto di osservazione. È come se Mondazzi volesse avvertirci che compiremo questo viaggio di morte e di risurrezione insieme a Cristo, in un’immedesimazione con lui. Come se fossimo chiamati a diventare un Alter Christus, condividendo con lui le diverse stazioni della Via Crucis.

La mano dall’alto – quella del Padre – benedice il nostro viaggio. È questo un gesto di fiducia senza il quale ogni azione umana cadrebbe nel non senso, nel vuoto di un fallimento senza redenzione. Alcune gocce di sangue, come raccontano i vangeli sinottici nell’episodio dell’Orto degli Ulivi, scendono dal volto di Gesù. Queste gocce ci accompagneranno lungo tutto il cammino della Via Crucis. Appaiono presagire quanto accadrà tra poche ore, quando Cristo sarà inchiodato per essere innalzato sulla croce. Certo, i due piedi poggiano a terra. Tuttavia, allo stesso tempo sembrano staccarsi dal terreno: Gesù è condannato a morte, ma questa morte si presenta come un presagio di risurrezione, di ascensione verso l’alto, come inizio di un viaggio che conduce alla casa del Padre. La morte non può essere separata dalla risurrezione.

 

Seconda stazione: Gesù tradito da Giuda, è arrestato. È questa la scena più oscura, più tenebrosa. Con toni drammatici e cupi, Giuda avvicina le proprie labbra tumefatte alla guancia di Cristo. I volti appaiono fuggevoli, evanescenti fantasmi provenienti da mondi lontani, come dall’oltretomba, dal Regno dei morti. Si presentano come maschere orrende, grottesche, deformi. Emergono da un fondo nero, di tenebra, come se gli appartenessero. E da questo vengono alla luce: diafani, emergono alla nostra coscienza per parlarci di un mondo senza luce, senza speranza. In fondo, colui che tradisce una fiducia già muore in se stesso trascinando l’altro verso l’abisso, in una spirale di morte.

Ogni paesaggio è abolito. Ogni linea dell’orizzonte, soppressa. Tutto è assorbito in un nero bituminoso. Se solo l’amore crea dando forma a ogni cosa, come descrive il libro di Genesi nella Creazione, il gesto di Giuda fa sprofondare e precipitare in un gesto di de-creazione, in un magma informe. Dallo sfondo non traspare alcun raggio di luce. Il bacio, da segno di amore, si converte nel suo contrario, trasformandosi in una condanna a morte. È la perversione della bellezza e della dolcezza di un gesto.

Se Cristo sarà crocifisso, Giuda si impiccherà. Incapace di sopportare il peso dell’atto compiuto, sarà incapace di chiedere perdono, di presentare la propria ferita a Cristo accogliendosi nel proprio fallimento. Si toglierà allora la vita. Paradossalmente sia Giuda che Cristo presentano lo stesso volto. È come se al tempo stesso l’autore si mettesse sia nei panni della vittima che del carnefice. In fondo – sembra suggerire Mondazzi – nelle differenti situazioni della vita non possiamo diventare tutti noi traditori e traditi allo stesso tempo? Nessuno di noi può elevarsi a giudice del fratello. Siamo tutti chiamati a imitare Cristo, che rivela uno sguardo di pietà e di misericordia, anche quando noi siamo più lontani, distanti. È quello stesso sguardo amoroso che siamo invitati ad avere verso noi stessi.

 

Nella terza stazione: Gesù è condannato nel Sinedrio, il Sommo Sacerdote sta puntando il dito al di fuori del quadro. La sua mano è rivolta verso di noi, come se fossimo al posto di Cristo. Il suo volto è sdegnato, irato, contratto. Se Mondazzi adotta una certa retorica nella rappresentazione dell’autorità religiosa, assecondando anche alcune immagini tratte da celebri film sulla vita di Cristo, è forse per ricondurci a un immaginario collettivo per cui il male assume i tratti di quel volto, immediatamente riconoscibile. Guardare quel volto fa vivere l’esperienza del sentirsi giudicati, condannati, dimenticando che lo sguardo di Dio sull’uomo è colmo di misericordia e pietà. Dio resta in attesa di una riconciliazione da parte nostra, di una conversione, come il Padre che guarda l’orizzonte per scorgere in lontananza quel figliol prodigo che era partito e che farà poi ritorno. Quel volto si fa simbolo di una religione che, invece di re-ligare, di condurre l’uomo al Dio della vita e a una condivisione con i fratelli, diventa strumento di condanna e di morte.

 

Nella quarta stazione: Gesù rinnegato da Pietro, appare lo stesso fondo oscuro della tavola precedente. Rinnegare colui che si ama è sprofondare negli abissi della notte. In primo piano, le due mani legate di Cristo emergono con grande potenza espressiva, rischiarate da una luce che viene dalla destra della tavola. Sul fondo, un uomo – il volto è sempre quello dell’autore – sta piangendo. Appare come un fantasma, uno spettro. È Pietro. Il gallo ha cantato per la terza volta. «E scoppiò in pianto», nota l’evangelista Marco (Mc 14,72). Pietro è consapevole del suo tradimento. Il pianto è l’inizio di una risalita verso la luce, è la richiesta di perdono già accordato, la manifestazione di un pentimento per una grazia già ricevuta. L’apostolo ha rinnegato colui al quale aveva promesso assoluta fedeltà. Sperimenta così la fragilità umana, la sua ambiguità, le sue contraddizioni. Tuttavia non cede alla disperazione, come Giuda, ma accoglie la grazia di sollevare il proprio sguardo, incontrando quello misericordioso di Cristo.

 

Nella quinta stazione: Gesù giudicato da Pilato, vediamo in primo piano due mani mentre stanno sollevando una manciata d’acqua. Il governatore romano, Pilato, colui che detiene il potere di vita e di morte, si “lava le mani”, non vuole entrare in quello che considera un problema “interno” ai Giudei. Innumerevoli suggestioni emergono dalla nostra coscienza. Infatti, è questo il gesto di chi non vuole compromettersi, di chi non si assume la responsabilità etica della propria vita, delle proprie decisioni, di chi non è disposto a rischiare nulla.

L’artista abruzzese pone in primo piano una tazza che, come un oggetto archeologico alterato dal tempo, emerge fisicamente dal fondo. Una vera e propria scultura. È rivolta verso di noi, in modo che lo spettatore sia coinvolto direttamente nella scena: quella tazza si trova realmente davanti a lui. È lì perché anche lui prenda la decisione di lavarsi le mani di fronte alle scelte che si trova a compiere? Il gesto delle mani, così come è suggerito da Mondazzi, è tuttavia molto particolare. Se da un lato mette in scena il gesto di Pilato, dall’altro ricorda quello con cui il Battista compie il battesimo di Cristo nelle acque del Giordano.

Il gesto delle mani che versano acqua, dunque, nella tavola di Mondazzi, assume il senso di un “battesimo al contrario”: infatti, se il battesimo simboleggia il passaggio dalla morte alla vita, lavarsi le mani per “passare” una responsabilità acquisisce invece un significato esattamente opposto: diventa un precipitare nella morte. Se il battesimo riporta l’uomo alla libertà del suo essere figlio, in grado di scegliere e di accogliere il bene, il gesto qui rappresentato esprime invece un rifiuto, un’immersione negli abissi di una morte che non prevede alcuna risalita. È il gesto di chi è incapace di assumersi la propria responsabilità etica nella storia.

 

Nella sesta stazione: Gesù flagellato e coronato di spine, siamo in presenza anche in questo caso della rappresentazione di alcuni dettagli. La stratificazione dei differenti colori è sempre molto studiata e accurata. L’immagine sembra assumere un effetto tridimensionale, quasi fosse una scultura. In primo piano sono poste le mani e i piedi di Cristo. Intuiamo il corpo ripiegato su se stesso. È un corpo che cerca di proteggersi, di difendersi. Lo sfondo è cupo, oscuro, per fare emergere nella luce, in una continua e sottile velatura di toni, un corpo ferito, sofferente, emaciato. Come dicevano i Padri della Chiesa, il Figlio di Dio ha assunto la fragilità umana, perché la nostra vita diventasse divina. È la strada discensiva di un Dio che entra nella storia dell’uomo: grazie all’incarnazione, infatti, la storia di Dio può diventare storia umana. Come il servo sofferente di Isaia, Cristo è umiliato, deriso, abbruttito dalla violenza. In questo suo assumere e portare il male del mondo diventa re. La sua regalità contraddice l’aspirazione dell’uomo che ricerca il potere nella dominazione degli altri. Servire, questa è la regalità di Dio.

 

Nella settima stazione: Gesù caricato della croce, due mani emergono dall’oscurità e, illuminate da una luce che proviene da destra, sembrano dirigersi verso di noi mentre reggono un palo. Il loro colore è bruno, terroso. Sembrano fuoriuscire dallo sfondo di tenebra a cui appartengono per essere illuminate dalla luce della grazia, che conduce l’uomo verso il compimento della propria vita. In questa prospettiva il portare la croce non sembra più un evento tragico. Il gesto delle mani riconduce quasi a un abbraccio, come se il Figlio di Dio potesse abbracciare il male del mondo, simboleggiato da quel palo, per annientarlo e sconfiggerlo.

 

Nell’ottava stazione: Gesù aiutato dal cireneo a portare la croce, tutto si risolve, anche in questo caso, in una rappresentazione per dettagli. Vediamo le mani e i piedi di un uomo che sta sollevando un palo. Contempliamo nel silenzio il suo sforzo. Il punto di vista è ancora dall’alto verso il basso. Lo spettatore sembra così assumere il posto di Cristo, che guarda il cireneo mentre porta per lui la croce. Ogni uomo, infatti, è chiamato a portare il peso di un altro: ciascuno, come Cristo, ha bisogno di essere sostenuto e aiutato lungo il cammino.

 

Nella nona stazione: Gesù incontra le donne di Gerusalemme, una mano scende dall’alto per essere afferrata. È la mano del figlio di Dio che offre un sostegno, un punto di riferimento, un ancoraggio perché la vita dell’uomo non ceda a un vuoto che assorbe ogni cosa e non sprofondi nel nulla senza senso. È la grazia di Dio che scende dall’alto e che tutti siamo chiamati a riconoscere e accogliere. Lo sfondo, ora, non è più tenebroso, ma luminoso. Una tenue luce sembra infatti diffondersi in ogni punto dell’immagine: la grazia è come un profumo che si diffonde ovunque, in tutti gli spazi della vita, trasformandoli, vivificandoli. È l’amore di Dio che scende su di noi.

 

Nella decima stazione: Gesù Crocifisso, tre uomini pendono da altrettante croci. Il nostro punto di vista si colloca all’altezza dei loro piedi. Intuiamo come quelli di Cristo siano al centro della tavola. Tuttavia non compare alcun segno distintivo che permetta di riconoscerli. La morte di Gesù appare confondersi con quella degli altri uomini, di tutti coloro che sono stati uccisi, vittime della violenza e delle guerre che hanno insanguinato la storia. Nella morte non ci sono più gerarchie. La morte non fa distinzioni. Ogni uomo si presenta nudo davanti alla porta del Regno.

 

Nell’undicesima stazione: Gesù promette il suo Regno al Buon ladrone, in un cielo acquoso e plumbeo, due mani cercano di raggiungersi, per toccarsi, per stringersi. È la mano che Dio tende a ogni uomo per trarlo a sé, per condurlo alla vita, per sottrarlo alla morte. Nell’abisso della notte c’è qualcuno che si prende cura della tua vita attraverso la semplicità di un gesto: il prenderti per mano.

 

Nella dodicesima stazione: Gesù, in croce, la Madre e i discepoli, vediamo dall’alto alcune mani, alcuni piedi. Il punto di vista suggerisce che ci troviamo in alto, con Cristo sulla croce, come se fossimo davanti a lui. Al centro, i piedi posti l’uno sull’altro sono quelli di Cristo. In alto, alle estremità, due piedi – uno maschile e l’altro femminile – alludono probabilmente a Giovanni e a Maria Maddalena, mentre nella parte inferiore, due braccia aperte in un atteggiamento di dolore, suggeriscono la presenza della figura di Maria. Si tratta di una sorta di visione, di apparizione di diverse figure solo accennate, evocate. È questo il momento dell’ultimo dialogo, del saluto finale che precede la morte. Tuttavia, paradossalmente, l’immagine non suggerisce alcun sentimento tragico, quanto piuttosto la sensazione di trovarci di fronte a una danza. I piedi di Cristo non portano alcun segno di ferite. Anche lo sfondo non è cupo, come in alcune altre tavole altamente drammatiche. Si tratta forse di una scena che prefigura la risurrezione? Le mani alzate di Maria possono allora significare allo stesso tempo la gioia della risurrezione? Emerge alla memoria l’episodio descritto nel libro dell’Esodo della danza di Miriam e del popolo ebraico dopo la traversata del Mar Rosso. Il nemico egiziano è stato sconfitto. Il carro del faraone con l’esercito è stato inghiottito dalle acque. Ora, sotto la croce, questa danza sembra alludere alla vittoria della vita sulla morte. Se Cristo risorge, tutto il popolo cristiano può danzare insieme a Maria e a Giovanni. La morte è stata inghiottita dall’amore di Dio.

 

Nella tredicesima stazione: Gesù muore sulla croce, l’immagine s’incupisce di nuovo. È una scena notturna. Tutto appare immobile. Un potente fiotto luminoso che giunge dalla sinistra della tavola illumina il braccio di Cristo, come per lambirlo, accarezzarlo. Forse Cristo è sul punto di morire. Sta esalando l’ultimo respiro, donando il suo spirito. Nel cuore della notte il Padre è lì, accanto al Figlio, con la dolcezza della sua luce. Soffre con lui. Se da un lato la scena è altamente drammatica, dall’altro suggerisce attesa, speranza. Non percepiamo alcun grido. È questo un momento di silenzio. Cristo scende nelle tenebre per poi risorgere il terzo giorno. Se lo sfondo è cupo, appare tuttavia una linea d’orizzonte. Un cielo blu, scuro, profondo, sembra così indicare un orizzonte di senso e accogliere una speranza di vita.

 

Nella quattordicesima stazione: Gesù deposto nel sepolcro, gli arti inferiori si stagliano su di uno splendido telo sindonico. Tuttavia fatichiamo a capire se appartengano a un corpo già morto o a un corpo che ha già ripreso vita. L’autore sembra volutamente lasciarci nell’ambiguità, cogliendo forse il momento stesso in cui Cristo risorge, l’attimo del risveglio. È come se fosse rappresentato il momento in cui, in quel cadavere, sorgesse un fremito di vita.

Di fatto, da questo dettaglio non immaginiamo un corpo sfigurato, deforme, come accade invece spesso nella tradizione nord europea – pensiamo semplicemente al Cristo crocifisso di Matthias Grünewald a Isenheim. Il corpo appare piuttosto addormentato, colto nella sua bellezza e quasi sul punto di alzarsi… un corpo già risorto. La sola testimonianza delle violenze subite è qui la ferita del chiodo al piede sinistro. Le ferite sono la carta d’identità del Figlio di Dio, il suo sigillo amoroso, il segno del suo amore per l’umanità. Il pensiero va immediatamente al libro Cantico dei Cantici, in cui l’amata si rivolge all’amato: «Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio; perché forte come la morte è l’amore» (Ct, 86). Solo l’amore è forte come la morte. Le ferite sono sigilli impressi sulla carne. Sono i segni di colui che ama, come se non si potesse amare senza portare su di sé il sigillo di questo amore. È questo l’invito rivolto a ogni uomo.

 

[1]. Attraverso le stazioni della Via Crucis (dal latino, Via della Croce o Via Dolorosa) si ricostruisce e commemora il percorso doloroso di Cristo che si avvia alla crocifissione sul Golgota. La leggenda fa risalire la storia della Via Crucis alle visite di Maria, presso i luoghi della Passione a Gerusalemme. In realtà, si riconosce l’inizio di questa devozione a Francesco d’Assisi o alla tradizione francescana. Intorno al 1294, Rinaldo di Monte Crucis, frate domenicano, racconta la sua salita al Santo Sepolcro per viam, per quam ascendit Christus, baiulans sibi crucem, per varie tappe, chiamate stationes: il luogo della condanna a morte di Gesù, l’incontro con le pie donne, la consegna della croce a Simone di Cirene, e gli altri episodi della Passione fino alla morte di Gesù sulla Croce. Originariamente la Via Crucis comporta la necessità di recarsi realmente presso i luoghi della Passione. Essendo troppo difficile per la maggior parte delle persone, le stazioni nelle chiese costituiscono un modo “ideale” di condurre ciascun credente a Gerusalemme. Tale pratica popolare è diffusa dai pellegrini di ritorno dalla Terrasanta e soprattutto dai Minori Francescani che, dal 1342, avevano la custodia dei Luoghi Santi di Palestina. Inizialmente la Via Crucis come serie di quattordici “quadri”, disposti nello stesso ordine, si diffonde in Spagna nella prima metà del XVII secolo ed è istituita esclusivamente nelle chiese dei Minori Osservanti e Riformati. Successivamente Clemente XII estende, nel 1731, la facoltà di istituire la Via Crucis anche nelle altre chiese.

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