L’esercito inglese operò una sistematica distruzione delle fortificazioni d’Irlanda, la quale, per questa ragione, non è una meta per turisti in cerca di castelli (a differenza della Scozia), tuttavia nel verdissimo paese si possono trovare autentiche sorprese.
Tra tutti, l’abbazia di Kylemore stupisce il visitatore perché situata nel Connemara, una regione poco popolata che ospita un parco nazionale dagli splendidi scenari.
La storia dell’edificio è commovente: fu voluto per la sua famiglia da Mitchell Henry, dottore e poi ricco finanziere nonché membro del Parlamento per la Contea di Galway. La commissione fu affidata a James Franklin Fuller, coadiuvato da by Ussher Roberts; la costruzione del castello iniziò nel 1867, il completamento richiese l’opera di cento uomini e quattro anni di lavoro. Ha una superficie di 3700 metri quadri e contiene oltre 70 stanze.
Mitchell amava la valle in cui è incastonata la proprietà per la serenità che infondeva nel visitatore e altresì amava profondamente la moglie Margaret, che volle seppellire in un mausoleo presso l’edificio; in seguito dovette soffrire anche la morte della figlia. Fu poi egli stesso posto accanto alla moglie.
Oltre al mausoleo e all’edificio principale, si trovano nell’area una chiesa in stile gotico e un giardino vittoriano, raggiungibili attraverso un lungo sentiero che, per la maggior parte del percorso, costeggia l’omonimo lago (Lough Kylemore).
Dopo essere stato posseduta dal duca e dalla duchessa di Manchester, che furono costretti a cederla perché sommersi dai debiti di gioco, nel 1920 la proprietà venne in possesso delle monache benedettine di Ypres, fuggite dal Belgio per la Prima guerra mondiale.
Divenne così un’abbazia e anche una scuola, quest’ultima chiusa nel 2010.
Oggi vi troviamo restaurati sia il giardino, interamente circondato da un muro, che le stanze dei diversi edifici, arredate con mobili e oggetti dell’epoca per dare l’idea di come vi si viveva in età vittoriana; già dal 1970 il pubblico può visitarla ed è meta costante per i turisti.
Le monache, tra donazioni, biglietti per l’ingresso e produzioni locali, mantengono la struttura autosufficiente.
Umberto Rustichelli