Un viaggio nell’ architettura e nella luce di Carlo Pozzi e Andrea Dall’Asta SI
L’opera di Muzio è annoverata come fondatrice della corrente 900, un atteggiamento che guarda alla storia dell’architettura ma prova a sganciarsi dall’eclettismo tardo-ottocentesco. Il distacco più efficace avviene non tanto con la celebratissima Ca’ Brütta, architettura del centro-città fatta a strati di stili e materiali diversificati, quasi un’esposizione di preziose qualità urbane, quanto con la chiesa di Santa Maria Annunciata, una sorta di cattedrale delle periferie milanesi, per dimensione e per qualità.
E’ una storia complessa, anch’essa di strati – in questo caso realmente storici – sia per quanto riguarda il sedime su cui poggia l’opera di Muzio, sia per la relazione con una chiesa molto più storicizzata che si trova a non più di cinquecento metri dall’Annunciata e che dà il nome a tutto il quartiere: la Chiesa Rossa, in effetti Santa Maria la Rossa e anticamente Santa Maria ad Fonticulum per la presenza di una fonte d’acqua adiacente il prospetto di mattoni di terra cotta (rossi). Chiesa romanica con resti di affreschi e copertura con capriate lignee.
Questa evidente romanicità avrà fatto credere opportuno all’ingegnere Franco Della Porta, chiamato al progetto del nuovo manufatto sacro per una parrocchia “testa di ponte” verso nuove periferie, di costruirlo in stile neo-romanico a impianto basilicale con tre navate e altrettante absidi: ne rimangono cospicue e interessanti tracce nello spazio ipogeo, oggi utilizzato per convegni e deposito.
Su questo “basamento” finto-storico va a poggiarsi il progetto per cui viene incaricato il già celebre architetto Giovanni Muzio nel 1925: sarà realizzato entro il 1932, con inaugurazione del cardinale Schuster , a meno del pronao monumentale realizzato solo nel 1960, per questioni economiche che motiveranno anche la mancata realizzazione del campanile, sempre su disegno di Muzio.
Di neo-romanico l’architetto perpetua l’impianto a tre navate riducendo le absidi da tre a una, posta al termine della navata centrale, e non enfatizzando l’uso del mattone; inoltre aggiunge due aule semicircolari, una per la sagrestia, una per una cappella e il battistero ottagonale medievaleggiante con una scultura giovanile di Giacomo Manzù, il San Giovannino.
L’immagine complessiva della nuova architettura sacra ha carattere decisamente monumentale, ma spogliato dalle decorazioni e da accessori superflui: il ruolo principale lo assume la copertura a botte rigorosamente geometrizzata (in effetti un semi-cilindro) che poggia su una sequenza di colonne in pietra classicheggianti e indirizza lo sguardo verso l’altare maggiore che diventa architettura grazie a un ciborio in pietra che poggia su quattro colonne minori. Il transetto è più alto e strutturato con una sequenza di travi lignee poste di coltello.
Anche la tecnica di realizzazione della volta a botte risulta innovativa: realizzata in cemento armato con spessore non superiore ai venti centimetri e elementi in cotto.
Questo rapporto tra elementi neoclassici – figli dell’eclettismo – e geometrie elementari – che introducono al razionalismo – è la cifra che spinge in avanti il progetto e lo fa entrare decisamente nella modernità.
Carlo Pozzi
Quando si parla di Dan Flavin (1933-1996), non si può fare a meno di riflettere sulle sperimentazioni con la luce artificiale. Dagli anni Sessanta, l’artista americano, protagonista della Minimal Art, usa oggetti d’uso quotidiano, come neon industriali da parete, per creare installazioni scultoree (icons), dagli effetti luministici straordinari, sviluppando un’estetica nuova e originale, con al centro la luce. Gli interni si presentano come luoghi d’irradiazioni luminose, in cui ogni limite sembra annullato, ogni direzione dissolta, come in Varese corridor, le installazioni di Villa Litta Menafoglio a Varese, realizzate nel 1976[1]. Flavin, chiamato dal conte Giuseppe Panza di Biumo, realizza sculture con tubi fluorescenti – neon di tre lunghezze – che si ripetono e s’intrecciano come fili, creando uno spazio colorato[2].
La distanza tra l’opera e lo spettatore è qui abolita. In una perfetta continuità tra arte e tecnologia, non ci troviamo di fronte a un’opera d’arte, ma siamo immersi in essa, avvolti dall’intensità dell’energia del colore che riempie la stanza. Ogni mimesi del mondo naturale è definitivamente superata. La visione dello spazio si fa evento, partecipazione attiva dell’osservatore nell’universo dell’opera. Non siamo più di fronte a un oggetto, come davanti a un quadro del Rinascimento, con la sua griglia prospettica che accoglie una historia, ma l’abitiamo, la viviamo, la respiriamo. Siamo là, immersi nel colore. Anche se Flavin ha negato una dimensione trascendente o simbolica, nell’affermazione che la sua arte «è quello che è e non è niente altro», specificando che le sue opere sono semplicemente luce fluorescente in uno spazio architettonico, non possiamo tuttavia fare a meno di avvertire un profondo senso di sacralità, come in una risalita verso una purezza e una perfezione originarie.
Non solo. La tecnologia è stata posta a servizio della liturgia, come nell’intervento, inaugurato nel 1997 e realizzato grazie alla lungimiranza del celebre collezionista Giuseppe Panza di Biumo e con il contributo della Fondazione Prada, nella chiesa milanese di Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa a Milano, costruita nel 1931 di Giovanni Muzio[3]. Grazie alla liberazione degli affreschi che decoravano l’abside e il transetto, il minimalismo estetico ritrovato della chiesa dell’architetto italiano incontra in maniera inedita il minimalismo americano, ridisegnando e ri-significando l’intero edificio.
La luce diffusa dai neon colorati suggerisce qui un percorso simbolico: azzurro per la navata dalla volta a botte, rosso per la crociera e giallo per l’abside, fulcro visivo dello spazio. Grazie alla forza espressiva del colore, l’intervento allude così alla progressione che va dalla notte all’alba e al giorno, evocando il viaggio della salvezza dell’uomo, chiamato a nascere, ad accettare il sacrificio della Croce per accedere alla risurrezione e alla gloria. L’aspetto simbolico è ancora richiamato, quando, di sera, l’illuminazione proviene dall’interno, trasformandosi in uno spazio d’irradiazione di luce. Attraverso i tubi fluorescenti, Flavin ripropone in questo modo dal punto di vista liturgico una concezione luministica intesa come rivelazione dello scorrere del giorno, dall’aurora fino al tramonto.
L’edificio si fa luogo teologico: la chiesa diventa corpo luminoso di Cristo, luce per la vita dell’uomo. Lo spazio colorato che permea e immerge la vita stessa del fedele crea un luogo simbolico finalizzato all’annuncio di una promessa, di un destino.
In ogni caso, al di là di ogni specificazione di carattere liturgico, l’intervento di Flavin rilancia in modo nuovo il tema dell’arte sacra, affidandosi ai mezzi intrinseci dello strumento visivo, che non può mai essere semplicemente ricondotto a un utilizzo iconografico, ma è finalizzato a introdurci in un’esperienza immersiva dello spazio. Aspetto oggi troppo spesso dimenticato nell’architettura religiosa.
Andrea Dall’Asta SI
Direttore Galleria San Fedele, Milano; Raccolta Lercaro, Bologna
[1] Dan Flavin, Varese Corridor, 1976, luci fluorescenti, Villa Panza, Varese.
[2] Rimando per una lettura dell’intera opera e per una bibliografia sul soggetto a Vettese A., Dan Flavin. Stanze di luce tra Varese e New York, opere della Collezione Panza dal Solomon R. Guggenheim Museum di New York, Skira, Milano 2004.
[3] Sul tema: Celant G. (a cura di), Cattedrali d’arte. Dan Flavin per Santa Maria in Chiesa Rossa, Fondazione Prada, Milano 1996.
La foto in copertina di Roberto Marossi © per gentile concessione della Fondazione Prada
le foto della galleria sono dell’autore Carlo Pozzi