Dove cercare l’intimità con Dio ?

 

Gesù avrebbe detto: «Entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo» (Vangelo di Matteo 6,6). Non ha detto: «Va al tempio». Allora a che servono le nostre chiese?

Con un bel titolo «Servono chiese belle per nutrire la fede» il Corriere del 7 febbraio pubblicava un lungo articolo di Susanna Tamaro, ricco di molti pensieri meritevoli della massima attenzione. Non condivido, però, il suo drastico e generalizzato giudizio sulle nuove chiese del Novecento. Per smentire questo giudizio basterebbe ricordare l’opera di Rudolf Schwarz in Germania, grande costruttore di chiese costantemente accompagnato da Romano Guardini, uno dei più grandi teologi del secolo scorso. Oppure la cappella di Ronchamp di Le Corbusier, o ancora la cappella del monastero di Vence di Matisse. Ma senza citare i grandi, molte altre cose egregie si sono pur realizzate anche nel dopoguerra, anni di grande povertà, costruzioni modeste ma del tutto rispettabili.
Se poi si vuole riflettere su quel certo indubbio smarrimento di molti architetti e, più ancora, dei committenti, alle prese con la progettazione di una nuova chiesa, bisognerebbe non dimenticare che ne è responsabile prima di tutto l’arresto degli sviluppi della grande tradizione vivente, dovuto alla cultura reazionaria cattolica dominante nell’Ottocento e ancor viva nel primo Novecento. Non si sono volute cogliere, infatti, le nuove opportunità del moderno e ci si è rifugiati, imponendolo dovunque nel mondo, fino a Pechino, nel neogotico, nel neobizantino, nel neoromanico, come se fossero le uniche forme possibili per costruire chiese che alimentino la fede. Dopo più di cent’anni di questa morte della creatività, non stupisce che ci si ritrovi come in un vuoto, nel quale dover inventare le forme corrispondenti alla spiritualità e alla liturgia del nostro tempo.
Non mancano nella sensibilità cattolica le resistenze di una mentalità individualista, ripiegata in un senso del sacro dalle venature romantiche, alla grande lezione del Vaticano II per un cristianesimo che riscopra la sua vocazione nel mondo e il senso comunitario della sua vocazione e della liturgia. Allo spazio delle chiese si domanda solo che sia propizio al proprio colloquio con Dio. Desiderio più che legittimo. L’architetto ne ricavi la sollecitazione a inventare nell’insieme del complesso almeno un angolo o a curare che la cappella feriale corrisponda a questo bisogno. Ma la chiesa, come lo dimostrano le basiliche paleocristiane, è fondamentalmente la casa della comunità, nella quale l’incontro con Dio è corale: è la famiglia di Dio che vi si raduna: donne, uomini e bambini, anche se rumoreggianti, intellettuali e analfabeti, tipi solitari e altri amanti della compagnia. Al desiderio di un luogo che propizi il raccoglimento può ben corrispondere anche la celebre cappella di Rothko a Houston o l’aula di meditazione del palazzo dell’ONU a New York. Lo spazio del culto cristiano ha altre prospettive: raccogliere il popolo di Dio perché, in cammino verso il Cristo, ne canti nell’azione liturgica, coralmente le lodi, offra a Dio la vita vissuta nella testimonianza della fede nel mondo e attinga la grazia necessaria per adempiere alla sua missione. A tutto questo ben altra riflessione dovrà essere dedicata.

Severino Dianich

 

Rudolf Schwarz, Cappella del Castello di Rothenfels, 1928 (foto Tino Grisi, 2019)

Le Corbusier, Notre-Dame du Haut, Ronchamp 1955 (foto Tino Grisi,1998)

Interno della Rothko Chapel, (foto archivio Thema) 

 

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