Motivi differenti legano alcuni edifici religiosi in un filo conduttore tra Italia, Svizzera, Austria e Germania. Il più semplice e immediato è la firma degli autori: tre architetti assunti al ruolo di notorietà assoluta. In ordine alfabetico: Mario Botta, Michele De Lucchi, Peter Zumthor. Tutti hanno realizzato, per committenti differenti, ma per motivi avvicinabili, piccoli edifici per la preghiera in ambienti fortemente caratterizzati dal contesto in cui sorgono.
La prima è la chiesa di Mario Botta detta del Granato sulla cima dello Penkenjoch in Austria (2013). Ci si può arrivare a piedi su ampi sentieri ben curati o, assai celermente, con una cabinovia che, in due tratti, porta alla cima dal paese di Finkemberg. Così la forma del grande guscio ha preso il nome dalle pietre dodecaedre, i granati, che si rinvengono nell’area. Un edificio piccolo, come tutti gli altri, che però è l’unico predisposto per una eventuale celebrazione eucaristica, avendo all’interno un altare. Posto su una cresta di un vasto pianoro, affacciata sulle valli sottostanti, spicca nella linea dell’orizzonte per la sua forma poligonale e per il colore che il metallo corten ha assunto. L’effetto di duplicazione della sua immagine che lo specchio di acqua, anch’esso all’interno di un recinto atto ad allontanare gli animali al pascolo, crea, enfatizza la dimensione di leggerezza del volume che già appare sospeso su di una piccola base candida in cemento, quasi posto in un equilibrio dinamico più che solidamente radicato. Il parallelepipedo che sostiene “il granato” è diviso all’interno in un piccolo atrio di ingresso, funzionale al luogo superiore quasi fosse un nartece, e in un vano tecnico. Qui un cartello avvisa di lasciare le bacchette da sci o da passeggio, quasi una spoliazione della dimensione fisicamente dinamica da cui si proviene. La scala ad angolo, preceduta da una acquasantiera, porta al piano superiore dove si viene accolti da una luce calda che naturalmente inclina al silenzio. Di tutte le persone che ho visto entrare, bambini compresi, non una parlava a voce più alta di un sussurro. Il volume interno è un disorientante incrocio di doghe in legno di larice che ricoprono tutte le superfici, creando incroci di linee negli angoli di intersezione dei differenti piani romboidali che costruiscono il volume. L’apparente molteplicità di riferimenti viene fermata da due ferritoie a croce poste una a sinistra e l’altra opposta alla prima, per chi si affaccia dalla scala. Finestre molto alte che filtrano luce ma fanno vedere pochissimo cielo. L’occhio zenitale è la vera fonte di luce che permette di guardare all’azzurro della volta celeste. Sul piano poche sedute a forma di semisfere contrapposte e un altarino della stessa forma geometrica ma incastrato su di una lama di legno. Al centro del piano un quadrato di marmo. Sopra, alla sua destra il ritratto a mosaico ligneo del frate francescano beato Engelbert Kolland (Ramsau in Zillertal 1827 – Damasco 1860), a cui la cappella è dedicata, opera lignea dello scultore Markus Thurner. Sotto alla finestra a croce nel piano soprastante le poche sedute, quasi a porre un saluto a chi discende la scala per uscire, una icone della Madonna.
In questo ideale cammino a nord ci si porta poi su un tracciato di un ‘cammino di Compostella’ in terra germanica. Qui i piani della campagna sono morbidamente mossi e costellati di aziende che hanno in cura il territorio con evidente attenzione. Lasciato uno dei piccoli villaggi, del comune di Fischbachau, le cui case agricole testimoniano una comune cultura che unisce i due versanti delle Alpi, si percorrono alcuni chilometri su via di campagna e, scollinando, ci si affaccia su di una depressione ampia che, chiusa da una alberatura, pone in risalto un vasto pianoro a prato. Lungo la via, in località Auerberg, si intravvede il piccolo edificio che si riconosce essere altro, dagli edifici rurali, per la sua sobria geometricità. Una capanna, la Cappella di San Giacomo opera (2012) di Michele De Lucchi, una sosta ideale lungo il cammino, ancora assai lungo, che attende il pellegrino jacopeo. Le pareti in ceppo, un conglomerato naturale, in grandi blocchi squadrati posti orizzontalmente nella parte inferiore e, ortogonali ai primi, al di sopra di una linea in aggetto quasi a segnare un piano differente. I lati lunghi sono interrotti da piccole finestre con serramenti di differente foggia, in legno tagliato ad ascia in listelli che richiamano le aperture tipiche dei fienili per la ventilazione dei raccolti. Verso la strada un elemento nero aggettante, quasi un tendaggio, segna l’ingresso. Vano aperto in posizione asimmetrica, alla cui sinistra è scolpita la conchiglia jacopea. Il portone, a due ante in legno chiaro, è ripartito in differenti riquadri, alcuni dei quali hanno delle portelle che, aperte, permettono la visione dell’interno anche se l’aula fosse chiusa. Attenzione data anche in queste per le differenti altezze in cui sono poste e per l’immediatezza con cui i perni in legno dichiarano di poter essere mossi. L’interno è ulteriormente contenuto da un piano elevato di quattro gradini, su cui sono poste una panca e una vasca circolare in pietra, al cui centro è un portacero. Un lume in vetro pende dal soffitto in posizione tale da poter supportare l’eventuale lettura di chi siede alla panca. La parete di fondo è aperta, da un grande occhio vetrato, sul prato al cui limitare è un filare di alberi dei quali uno è quello della Croce. Oltre a questa quinta la campagna di prolunga in una valle nella quale si traguarda la torre nolare di un paese. Lo spazio fortemente verticale, accentuato da una copertura in travetti di legno posti a capanna e dall’innalzamento del piano, è segnato da una stretta mensola, quella che separa all’esterno gli andamenti di posa dei conci di pietra, sulla quale sono posti una croce assembleata con piccoli cubi e una sfera la cui superficie è interotta da una naturale rottura del legno. Sulla parete di ingresso, sempre vincolata alla mensola mediana, una piccola chiusura ‘a cuore’ di una serratura antica. Sotto, a fianco della porta, un piano per riporre i lumini devozionali. Unico elemento esterno è una panca posta alla base della parete di fondo da cui è possibile vedere, senza la guida della finestra tonda, la quinta naturale che porge la croce al pellegrino.
L’ultima tappa di questo viaggio porta alle porte di Colonia, a Mechernich – Wachendorf, dove una famiglia ha eretto (2005-6), su una sua proprietà, un luogo di preghiera dedicandolo al santo eremita svizzero Nicolao della Flue (1417 – 1487) e affidandolo alle cure di una Fondazione appositamente nata per la sua custodia. Anche qui è obbligatorio arrivare a piedi, in questo caso per esplicita richiesta dell’Ente di custodia, dopo qualche centinaio di metri. Un percorso ad angolo, che porta l’attenzione alla meta ma ne fa capire anche la distanza, la non possibilità di catturarne da subito la natura. Un monolito chiaro che si staglia su un paesaggio agricolo, ovviamente molto ben curato. Quasi fosse un metereorite qui infisso da altri luoghi, anche se il cemento è stato legato con inerti del luogo. Tutto il paesaggio è caratterizzato da lievi e ampie ondulazioni del terreno che creano un movimento a curve dolci e ampie distese. Avvicinatisi, la porta in acciaio si stacca su di un lato a base più corta nella sua fredda forma di triangolo isoscele assai aguzzo. L’apertura del pesante portale immette ad un basso e stretto pertugio che curvandosi porta allo spazio centrale, una sorta di camino la cui sommità si apre, letteralmente, al cielo. L’inclinazione delle pareti e la curvatura della pianta danno un sensazione assai forte di ascesa verticale. Unici arredi interni una piccola panca posta di fronte alla croce trinitaria di san Nicolao, un busto del Santo e una vasca contenente sabbia nella quale far stare le candele nella forma oggi presente nelle chiese di rito orientale. La durezza delle pareti esterne si rompe qui totalmente in una molteplicità di percorsi verticali, le sedi dei pali impiegati quali casseri che, poi combusti come venivano consumate le cataste di legna per la creazione del carbone, rendono elementi di scultura parietale di fascinosa resa. Lungo tutta la superficie sono molti occhi di luce dati da sfere trasparenti infisse nei tubi metallici che all’esterno interrompono la continuità delle pareti in calcestruzzo. Avendo piovuto la notte antecedente la visita, nel pavimento leggermente concavo vi era una pozza d’acqua. Nel periodo della mia visita più persone si sono fermate, ognuno singolarmente, all’interno dell’aula in manifesto silenzio di contemplazione. Gli elementi dell’occhio di luce sommitale, aforma di goccia, e le profonde scanalature dei pali, che hanno la ricchezza dei legni nella loro misura anche grafica, portano certo ad una dimensione di elevazione del pensiero, qualunque possa essere il credo dell’astante. Anche i particolari del catenaccio di chiusura sono degni di attenzione come in ogni architettura di Zumthor.
Un pensiero che possa legare questi tre luoghi. Sono spazi che creano relazione. Relazione in prima istanza con l’immediato intorno in cui sono posti. Relazione di simpatia, nel senso etimologico, con chi ne vuole fruire. Luoghi per la ricostruzione di una dimensione del sé per chi ha modo di soffermarvisi all’interno.
Se in Botta la costruzione sembra più finalizzata ad una sospensione del tempo affinchè il visitatore abbia lo “spazio” per una sua ricostruzione, il rapporto con l’esterno è rimandato a lame di luce, per il tramite delle croci, o alla caduta dall’alto, in De Lucchi il tema è dato immediatamente anche se con alta discrezione. La Croce non si impone, si traguarda all’orizzonte, quasi meta irraggiungibile e immagine di lontananza, come distante ancora è la fine del pellegrinaggio. Lo spazio è comunque spazio di sosta, di riposo, di deposito dei pesi o degli arnesi che possano distrarre. Gli sci o le racchette nel primo caso, la bisaccia del pellegrino jacopeo nel secondo. Entrambi gli edifici sono in certa sintonia con l’ambiente. Botta enfatizza un minerale dell’area, De Lucchi si allinea con la tradizione delle cappelle campestri, tanto che una settecentesca la precede di qualche centinaio di metri. La prima è quasi una manifestazione di segnata e rimarcata presenza sull’intorno, che decisamente si impone, la seconda è sommessamente inserita nel paesaggio e, per certi versi, potrebbe richiamare, anticipando, le costruzioni che si incontreranno nel cammino spagnolo.
L’edificio di Zumthor si distacca dalle prime. Qui la memoria dell’eremita svizzero che visse in solitudine e digiuno gli ultimi vent’anni della sua vita è rimarcato e sottolineato. L’esterno è edificio alto e duro, quasi torre. Nicolao, agricoltore possidente, partecipò a più guerre ed ebbe una famiglia con numerosa prole. L’interno, il cui accesso segna una cesura con l’esterno nella sua forte curvatura e marcato abbassamento, è un rimando alla seconda parte della sua vita. Analfabeta elaborò una telogia dotta della Trinità rileggendo una ruota di carro a sei raggi da lui composti e spiegati ai molti che lo visitavano per averne consigli. Questo elemento è posto a relativa altezza sulla parete opposta alla piccola panca, quasi a voler obbligare l’astante ad alzare il viso per intercettare la luce che entra dalla foratura “a goccia” verso cui le linee verticali si indirizzano. Per chi conosce la chiesa dedicata a san Benedetto, in Svizzera, la differenza è assai forte. L’unica vicinanza si potrebbe trovare nella costruzione del volume interno con la luce. Materiali totalmente differenti, là legno qui cemento. Ma anche ragioni di essere differenti: qui il richiamo al romitorio, là aula liturgica per l’Assemblea della domenica.
Architetture nel pieno senso del termine. Costruzioni che hanno e che portano un pensiero. Luoghi capaci di favorire una relazione, in primo luogo di esse stesse con l’immediato intorno, e poi, ben più rilevante, di permettere la ri-creazione di un equilibrio che, spesso, i disagevoli cammini della quotidianità hanno spezzato in frammenti non più capaci di essere letti se non come un casuale caleidoscopio che ruota su se stesso. In fondo, se accostati nella libertà della domanda, luoghi che un senso possono ancora offrirlo nella loro apparente povertà.
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