A 25 anni dal primo Giubileo degli Artisti (2000-2025)
Pontificia Università Gregoriana⬩Pontificia Università della Santa Croce
Il convegno si è svolto nell’aula magna dei due istituti promotori: il primo giorno presso la Pontificia Università Gregoriana ed il secondo presso la Pontificia Università della Santa Croce. Al centro del dibattito l’arte e l’architettura per la liturgia, tenendo presente soprattutto l’integrazione degli edifici di culto con il contesto socio-culturale contemporaneo, alla luce dei dettati conciliari e delle encicliche promulgate dal primo Giubileo degli Artisti ad oggi, nel quadro degli attuali cambiamenti urbani.
I relatori hanno affrontato, ciascuno, specifici argomenti a cominciare dal fondamentale tema del valore e del significato dell’icona sacra di fronte alla crisi della spiritualità e ai processi di desertificazione urbana e sociale. Se la Fabbrica di San Pietro mostra programmi iconografici sviluppati nel corso dei secoli, con stili diversi, ma coevi al loro tempo, l’analisi odierna dell’arte sacra evidenzia tre difficoltà: l’approccio all’iconografia e alla liturgia in un tempo di crisi della centralità cristiana; la frequente conflittualità tra gli operatori nel fondere il proprio ruolo nel processo creativo e la capacità di evocare il sacro in modo efficace.
Per meglio comprendere si illustrano due esempi, tra i tanti mostrati, rifiutati dai committenti: il primo, realizzato all’interno di un edificio di culto storico, la cattedra di Jannis Kounellis per il Duomo di Reggio Emilia; il secondo, la croce realizzata da Arnaldo Pomodoro per la recente chiesa di San Pio da Pietrelcina a San Giovanni Rotondo. Tutti e due i casi mostrano le difficoltà nell’accogliere opere contemporanee per una certa disarmonia tra tutti i soggetti coinvolti, committenza, artisti, architetti e comunità, ciascuno con attese diverse riguardo all’evocazione del sacro.
Ma se si guarda in termini epistemologici alla relazione tra arte e pontificati, dalla Lettera agli artisti del 1999, fino all’incontro di papa Francesco con gli artisti nel 2023, ci si chiede, quale sensibilità iconica si va formando oggi, in che modo si vuole trasmettere e quale ruolo assume nella liturgia? Rispetto alle moderne tecnologie, per esempio, la riflessione teologica sul loro uso per il culto non è al passo con l’enorme capacità che queste dimostrano nello stravolgere il paesaggio iconico contemporaneo e la relazione con l’immagine. I cristiani, riuniti in luoghi specifici, rivelano la realtà sacramentale della chiesa nell’unicità dell’evento liturgico attraverso se stessi. Nel rituale romano, il principale valore iconico è assegnato all’assemblea celebrante, ma se si guarda alle due principali modalità con cui è vissuta oggi l’esperienza iconica, quella della realtà aumentata e dell’immagine fullscreen, entrambe sono al suo opposto, sia perché impongono una fruizione individuale, escludendo la relazione, sia perché, priva di cornice, l’immagine diventa assoluta, idolatrica. La liturgia è figura della totalità e la sua rappresentazione iconica passa per il momento estetico e per quello della fede. Ispirandosi al silenzio della Vergine Maria può così evocarne lo stile: dalla parola agli atti di parola.
Il tema dell’architettura per il culto è affrontato secondo due prospettive che, nel reciproco influenzarsi, sono trattate separatamente: il rapporto con la liturgia e il rapporto con la città. Nel primo caso è fondamentale fissare i criteri teologici di base per determinare il carattere dell’architettura liturgica: la scala nel sogno di Giacobbe (Gen 28,10-19), ovvero, la chiesa come porta del cielo e casa di Dio (Giacobbe rinominò quel luogo, prima chiamato Luz, Betel, dalla radice bayt, casa); Zaccheo che riceve Gesù nella sua casa (Lc 19,8-10), ovvero, lo spazio della chiesa come luogo di festa. Pertanto l’efficacia sacramentale dello spazio è nel suo valore mistagogico, ma proprio perché è l’architettura costruita che ci plasma, l’edilizia di culto attuale rivela, da questo punto di vista, quattro tendenze fondamentali: la prima risolve la costruzione del luogo di preghiera nella sua dimensione emozionale; la seconda, di tipo storicistico si propone un ritorno al linguaggio della tradizione; la terza può essere definita regionalista ed esprime il principio di universalità attraverso il localismo; infine, la quarta si ispira ad un pragmatismo etico ed estetico, offrendo un campionario vasto ed eterogeneo di forme e contenuti. Restando all’architettura costruita, uno studio sulle cinquanta chiese realizzate a Roma per il Giubileo del 2000 mostra come, nonostante gli elevati valori estetici ed architettonici, in tutte le opere è assente una seria riflessione sul ruolo extra-liturgico dello spazio ecclesiale. Le ragioni sono da ricercare nelle due principali tendenze emerse dopo il Concilio: la prima, sul finire del secolo scorso, ha rinunciato ai modelli attraverso i quali l’edificio di culto ha storicamente rappresentato se stesso a favore di una contaminazione con il contesto, sia in termini di tipologie costruttive e di materiali, sia in termini più strettamente formali; la seconda, a partire dal nuovo secolo e ben rappresentata dalle cinquanta chiese, presenta sì un ritorno alla spiritualità, proponendo una chiesa-contenitore del sacro, monumentale e distinta dal contesto per forme e spazialità, ma poco incline ad accogliere le istanze di preghiera diverse dai riti liturgici, quelle più private e devozionali. La riflessione odierna però, proprio sulla scorta della sperimentazione sul campo sopra descritta, può proporre vie che superino queste criticità, pensando lo spazio sacro, innanzi tutto, come espressione totale della religiosità, dal rito alla pietà, facendo, così, della chiesa una domus orationis. Nonostante la desacralizzazione dell’architettura ecclesiale sia legata ad una sua crisi di significato nell’era tecnocratica, continuano ad esistere spazi e tempi specifici distinti dall’ordinario, dotati di una dignità propria: la nascita, i pasti festivi, la morte, che si ritagliano un tempo specifico e richiedono luoghi che ne attestino l’unicità. Si evidenzia così un altro aspetto dell’edificio di culto, la sua natura simbolica, attraverso cui la materia rivela la dimensione spirituale.
Esaminati gli aspetti liturgici, come s’inserisce la ricerca progettuale su chiese e complessi parrocchiali nel contesto dell’urbanizzazione globale, dove le nozioni tradizionali di città, centro e periferia sono spesso superate? Gli studi relativi alle moderne tipologie insediative evidenziano dinamiche urbane che portano alla frammentazione ed al superamento dei concetti di città e periferia. Nel contempo si afferma una cultura materiale della religione, “lived religion in lived space”, per cui si parla di post-secolarizzazione della città. In questo contesto i principali temi progettuali per gli edifici di culto, in relazione alla dimensione urbana, riguardano: la chiesa e la parrocchia come luogo che costruisce spazi di urbanità; la suggestione di “smagliature”, ovvero, la chiesa costruita come ritaglio, cittadella, “eremo urbano spazio di silenzio”, anti-urbanità. Dunque, se l’orizzonte urbanistico e storico, in continua trasformazione, resta incerto, le Scritture vedono nella città, nella Gerusalemme Celeste, il destino finale dell’umanità intera, perché, in definitiva, quel complicato manufatto umano, dalle mille funzioni, rappresenta a tutt’oggi la più alta espressione in risposta ai bisogni di relazione e di socialità.
Per concludere, gli stessi autori presentano alcune opere realizzate o in fase di progetto.
L’arch. Guendalina Salimei propone una riflessione su quegli edifici di culto che cessano la loro funzione liturgica, di preghiera e affronta il tema del riuso presentando, tra gli altri, il suo lavoro per il recupero della ex-chiesa dell’Annunziata a Foligno, che non fu mai ultimata e lasciata al completo abbandono. Una volta messa in sicurezza, ha introdotto alcuni elementi per il suo riuso come edificio destinato alla cultura e alle esposizioni: in particolare, la struttura in acciaio, rivestita in corten traforato, visibile all’esterno e il percorso, posto al di sopra del deambulatorio, che, attraversando due archi esistenti, permette una visione dall’alto della scultura “Calamita Cosmica”, di Gino De Dominicis, collocata nell’aula.
Oggi il ruolo svolto dalla luce, naturale e artificiale, assume una sempre maggiore importanza nella progettazione degli edifici di culto e, da questo punto di vista, molto significativo è il lavoro dell’arch. Alejandro Beautell. Qui, il tema fondamentale è la riflessione sul concetto di “tradizione vivente”. In particolare, presenta, tra le altre, la chiesa di Nuestra Señora de Candelaria en Alcalá a Tenerife, che sostituisce l’antica pieve, mantenendone la sagoma per preservarne la memoria, a cui si affianca la nuova struttura formata da due prismi triangolari in opposizione tra loro. La scialbatura delle superfici, in bianco per la sagoma della chiesa antica e in ocra per la nuova struttura, completa il volume esterno che riceve, dalle diverse bocciardature, particolari effetti luminosi. Lo spazio interno sembra come scavato e la luce che vi penetra si adagia sulle superfici donando all’insieme un’atmosfera d’intensa spiritualità.
Infine, presentano le loro opere tre artisti. Il primo, Javier Viver, affronta il trema dell’arte che si offre alla devozione. L’immagine devozionale parte dagli stessi principi della fotografia e come nel cinema deve saper collegare l’immediatezza della realtà vivente, con i valori universali: il mistero delle origini e l’universalità del gesto che esprime bellezza e spiritualità. Ha presentato alcuni suoi lavori, tra cui la “Bella Pastora” per il gruppo Hakuna. Il tema è quello di Maria con l’Eucarestia, che l’artista declina, attraverso il volto di una vera ragazza, in una figura di donna incinta che abbraccia il suo grembo.
Alfredo Pirri presenta un suo progetto dedicato a don Roberto Sardelli che, ordinario presso la parrocchia di San Policarpo, nel 1968 si trasferì tra i baraccati che vivevano sotto gli archi dell’Acquedotto Felice al Tuscolano, dando vita alla famosa “Scuola 725” per i bambini e i ragazzi delle baracche. Di quel crocevia di esistenze che lì hanno incontrato la profonda religiosità di don Roberto e la sua totale dedizione agli ultimi, oggi rimane il vecchio palo della luce da cui dipendevano, per la corrente, la scuola ed il resto delle baracche. La sua forma ricorda una croce e l’artista ne propone la conservazione, tingendolo con vernice dorata ed illuminandolo, come una sorta di faro-monumento, testimonianza e memoria di una straordinaria esperienza umana e religiosa.
Infine, Paola Grossi Gondi, presenta le sue vetrate presso la chiesa di San Giovanni Battista al Collatino, a Roma. Realizzate interamente su intelaiatura metallica, utilizzano per i cromatismi tessere di vetro colorato. Le vetrate rappresentano la vita del Santo in un suggestivo racconto per figure ed illustrate attraverso delicati registri narrativi. La luce è la discreta e vera protagonista dell’opera, ne è il caleidoscopio prodigioso che sa restituire ogni volta senso e attualità alle figure.
Il convegno ha introdotto temi e posto domande alle quali, la sperimentazione sul campo e future occasioni di studio e dialogo potranno tentare delle risposte. Il dibattito è stato intenso e profondo e tra i termini utilizzati con maggiore frequenza spicca la parola “sacro”. Espressione problematizzante, fatta di riverberi e risonanze, che, come un’eco, attraversa il tempo e la storia restando a tutt’oggi irrisolta ed oggetto di studio. Tralasciando le accezioni che ne danno la cultura ebraica e greco-latina ricordo qui, a conclusione di questo breve riassunto, quanto ha scritto in proposito Crispino Valenziano: “Si è soliti raccoglierla, tale problematica, attorno a due categorie di base, in fondo polari tra loro, la categoria del «numinoso» formulata da R. Otto (Il Sacro) e la categoria della «ierofania» formulata da M. Eliade (Il sacro e il profano); il numinoso potenza eloquente e la ierofania intensità visibile della trascendenza; l’una e l’altra, l’una diversamente dall’altra, espressioni categorizzatrici del mistero come del «tutt’altro» […] la distanza da noi al mistero categorizzato «tutt’altro» dalla fede e dalla speranza cristiane è misurato invece a intervallo di prossimità; per cui della trascendenza del tutt’altro è avvertita (lo diciamo con metafora anche temporale) dal non cristiano sempre lontana e dal cristiano sempre vicina.” [1].
[1] Crispino Valenziano, Architetti di chiese, EDB, Bologna 2005, p. 52.
Claudio De Meo
le foto di per gentile concessione di Gianni Proietti Photographer Sevizi di Comunicazione. Pontificia Università della Santa Croce